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“La forma delle rovine”, complotti come opere d’arte collettive

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gaitan

Questo pezzo è uscito sul Corriere della Sera, che ringraziamo.

di Emanuele Trevi

Sarà capitato a tutti ascoltare qualche immonda solfa dietrologica sull’11 settembre. Confesso che, pur trovando in genere divertente e addirittura poetica la follia umana, quella storia della CIA che riempie di esplosivo le Torri Gemelle, senza che nessuno se ne accorga, ha il potere di mandarmi in bestia.

Il mai troppo compianto Umberto Eco coniò una definizione perfetta di questo tipo di fissazioni: il «pensiero pirla». Possiamo riderne, ma ci vedo anche un risvolto tragico e ripugnante. Anche in queste forme di imbecillità tutto sommato innocue, sembra realizzarsi l’incubo di Primo Levi: che nessuno creda più ad Auschwitz. È dunque con grande empatia che ho gustato la scena in cui il protagonista della Forma delle rovine di Juan Gabriel Vásquez rompe il naso a un tipico esponente dello peudo-pensiero paranoico, tirandogli un bicchiere in faccia. Ma siamo solo all’inizio del lungo romanzo dello scrittore colombiano, nato nel 1973 e già noto in Italia per altri libri, tra i quali va ricordato almeno Il rumore delle cose che cadono.

La forma delle rovine è sicuramente quella che si dice un’auto-fiction, nel senso che chi ci parla è proprio lui, lo scrittore vissuto a lungo in Europa, a Barcellona, diventato padre di due bambine al giro di boa dei quarant’anni. Le pagine dedicate alla nascita prematura di queste due gemelle sono tra le più intense ed efficaci del libro, e pian piano il lettore si accorgerà che non si tratta di un’inutile digressione all’interno di una storia consacrata a fatti di sangue oscuri e remoti della storia colombiana. Perché la posta in gioco del racconto, dal punto di vista morale, è ciò che dal passato ci viene consegnato in qualità di figli, e ciò che siamo in grado di comprendere e conservare per coloro che a nostra volta mettiamo al mondo.

Si dirà che questa trasmissione non è cosa da scrittori di fiction, e pertiene ai libri di storia, ai documentari ben informati, agli atti delle commissioni d’inchiesta. Ma sarebbe come affermare che il celebre Rapporto Warren abbia dissipato tutte le ombre accumulate sull’attentato a J.F.Kennedy. E invece, quella verità ufficiale, con tutte le sue migliaia di pagine, sembra fatta apposta perché romanzi “inaffidabili” come Libra di DeLillo o American Tabloid di James Ellroy, che nessuno si sognerebbe di portare come prova in un’aula di tribunale, riaprissero in qualche modo i giochi nelle coscienze e nell’immaginazione.

Ecco il fondamento della fede nel romanzo di scrittori come Vásquez o Javier Cercas, che fra tutti i contemporanei mi sembra il più vicino alle idee del colombiano. Questi scrittori non considerano il romanzo semplicemente come il regno dell’arbitrio, nel quale il falso può liberarsi della tutela del vero. Semmai, scrivere un storia significa inoltrarsi in una zona di confine, dove non è più possibile distinguere con certezza la menzogna dalla rivelazione, la diceria dall’ultimo segreto, il più pericoloso, che proprio in questo regno dell’ambiguità può conservarsi in attesa di chi sia capace di scovarlo.

Detto questo, possiamo tornare su Carlos Carballo, quel petulante indagatore di verità non ufficiali che si becca un bicchiere sul naso all’inizio della Forma delle rovine. Il pensiero del paranoico non ha nulla a che vedere con la dialettica e tantomeno con l’arte della persuasione. Semmai, è una tela di ragno, della quale nemmeno il più scettico degli uomini può dirsi al sicuro, se i casi della vita maturano le condizioni psicologiche necessarie.

Per questo motivo il losco e sgradevole Carballo è uno dei personaggi più notevoli del romanzo contemporaneo. Tutta la storia colombiana, come appare nella sua mente contorta, è un’immensa scena del delitto, dove c’è sempre una presenza misteriosa, qualcuno che guida la mano degli autori materiali del delitto, gli unici che verranno incastrati in una verità ufficiale. L’ossessione di Carballo è come un’ellissi il cui centro si è sdoppiato in due fuochi, due delitti politici forieri di straordinarie e negative conseguenze nella storia colombiana: l’assassinio del generale Rafael Uribe Uribe, avvenuto il 15 ottobre del 1914, e quello di Jorge Eliécer Gaitán, ucciso il 9 aprile del 1948.

Due leader liberali, due grandi promotori della giustizia sociale e del progresso, amati dal popolo e detestati dalle forze reazionarie e clericali che li consideravano un’incarnazione del demonio. Se c’è una cosa che ai paranoici non manca è la pazienza. Carballo ha bisogno del protagonista, quel giovane e promettente scrittore che saprà dare una forma, come dice il titolo del libro, alle rovine di due vittime tanto illustri. La splendida metafora delle rovine umane Vásquez la deve a Shakespeare: è così che Antonio definisce le spoglie di Giulio Cesare, appena assassinato in seguito a un altro complotto ordito nell’ombra.

Le rovine di cui parla Vásquez sono anche dei resti concreti, la calotta cranica di Uribe Uribe sfondata da un colpo di accetta, una vertebra di Gaitán trapassata da una pallottola. Reliquie laiche, se è possibile concepire una cosa del genere, che invece di miracoli producono interrogazioni e sospetti. Noi italiani abbiamo ben poco da invidiare ai colombiani, nell’arte collettiva dei gialli che non arrivano mai all’ultima pagina, e ai nomi di Uribe Uribe e di Gaitán possiamo facilmente sostituire quelli di Enrico Mattei, o di Aldo Moro, o di Paolo Borsellino, senza distorcere minimamente il senso profondo del libro di Vásquez.

Che le rovine trovino la loro forma, non è l’inutile scommessa di un letterato in vena di misteri. Le verità ufficiali sono sempre troppo scarse e le verità paranoiche troppo abbondanti per essere credibili, sembra suggerire lo scrittore colombiano. Per questo abbiamo bisogno del verosimile: per non soccombere di fronte a questa scoraggiante alternativa. E se non riusciamo a trasmettere ai nostri figli il nome e il cognome degli assassini, è triste ma non è tutta colpa nostra, le cose sono andate così, gli assassini non sono stupidi.

Ben più grave, per i colombiani e per gli italiani e per tutti gli altri popoli del mondo, sarebbe la perdita della capacità di immaginare.

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